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Simple Minds: una carriera che non si è fermata agli anni 80. Purtroppo

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Tornato dalla Scozia dove si era trasferito un anno per lavoro, un amico mi disse che aveva capito il motivo dell’impressionante numero di gruppi musicali proveniente da un posto di appena cinque milioni di anime: solo negli anni Ottanta Annie Lennox, Sheena Easton, Jimmy Somerville, Midge Ure, gli Aztec Camera, i Deacon Blue, i Wet Wet Wet; e poi i Texas, Shirley Manson dei Garbage, Susan Boyle… va beh, fermiamoci.

Si diceva: la ragione.

Una ragione in effetti semplice: in Scozia piove sempre. Tutti i santi giorni: e spesso anche di notte. Il che determina serie limitazioni a quello che uno può fare nella sua vita per svagarsi, per cui tantissimi ragazzi si trovano a suonare (o almeno lo facevano prima che nascessero i social e l’online gaming).

Insomma tra i ragazzi che si trovano a suonare a Glasgow, verso la fine dei 70 ci sono Jim Kerr, cantante, e Charlie Burchill, chitarrista.
I due avevano iniziato, come tanti in quel periodo, dal post-punk, ottenendo scarso successo anche per i limiti della formazione (ci sarebbero voluti i The White Stripes per insegnare al mondo come si fa musica in due).
Kerr e Burchill lasciano quindi perdere il progetto “Johnny & the Self Abusers”, nonostante l’oculata scelta del nome, e accolgono il bassista Derek Forbes, il tastierista Mick MacNeil e il batterista Brian McGee.

I cinque scelgono un altro nome: “Simple Minds”, menti semplici, (ispirato da un verso di una canzone di David Bowie) e un altro filone: la musica elettronica, che all’alba del decennio 80 sta per produrre i suoi migliori cinguettii – specie in Gran Bretagna.

Nel genere i Simple Minds ottengono un discreto successo (soprattutto con l’album Empires and Dance) e vengono notati da Peter Gabriel, che li chiama come gruppo di supporto.

Ma è dal 1982 che i Simple Minds diventano i Simple Minds, contribuendo in maniera sostanziale ad aprire il filone della New Wave: prima con l’album “New Gold Dream” e poi, nel 1984, con “Sparkle in the Rain”, il primo non prodotto da loro ma da Steve Lillywhite (un signore che aveva prodotto gli Ultravox, Peter Gabriel e gli U2, per dire) e l’arrivo del successo “Don’t You (Forget About Me)”, colonna sonora del film Breakfast club, la loro prima grande hit e che è anche la prima canzone non scritta da loro ma da Keith Forsey – e forse, col senno di poi, questo qualcosa voleva pur dire.

Se una rondine non fa primavera, appena un anno dopo esce “Once Upon a Time” che contiene “Alive and Kicking” e si comincia a capire che i Simple Minds fanno sul serio. Anche perché a differenza delle boy band che vanno per la maggiore, loro come gli U2 loro mostrano tutto un altro spessore, impegnandosi in politica e schierandosi contro la guerra civile nell’Irlanda del Nord, l’apartheid in Sudafrica, l’incarcerazione di Mandela, il debito pubblico italiano e un sacco di altre giuste cause.

È a questo punto che, in ritardo di sei o sette anni su Peter Gabriel, li noto anch’io. In cerca di un gruppo a cui affezionarmi che non fossero gli ancora non inflazionati ma già popolarissimi U2, i Simple Minds mi sembrano perfetti: anche perché “Belfast Child”, la prima loro cosa che mi capita di ascoltare (associata al video su Music Television, naturalmente) è veramente toccante.

È tratta dall’album “Street Fighting Years” del 1989, un nome un programma, che contiene una serie di canzoni-manifesto ancora vive nella memoria, come “Mandela Day”, “Biko” (una cover di Peter Gabriel) o “This is Your Land”.

Aggiudicato: mi compro l’album e mi metto a tifare per i Simple Minds.

Come sempre, però, arrivo tardi, perché la parabola del gruppo scozzese è appunto arrivata al suo apice, e mentre gli U2 sanno rigenerarsi con “Achtung Baby”, i Simple Minds perdono la direzione, forse anche per l’abbandono del tastierista Mick MacNeil. Ahi ahi ahi, mi dico quando sento Videomusic annunciare “i Simple Minds tornano al loro sound originario”.

Infatti. Dopo il discreto “Real Life” (1991), arriva “Good News from the Next World” (1995), e il sound originario contro gli U2, i Take That e gli Oasis proprio non ce la fa. Anche la svelta Patsy Kensit si accorge di essere salita sul treno sbagliato, infatti nel 1996 si separa da Kerr e si mette con Liam Gallagher.
Per i Simple Minds è già il momento dei Greatest Hits, tra una girandola di etichette minori e album rifiutati dai discografici.
Pubblicano ancora qualche album, nel disinteresse generale.
Kerr apre un albergo e si trasferisce a Taormina, in Sicilia, altro posto di 5 milioni di abitanti che negli anni 80 aveva prodotto Franco Battiato, Giuni Russo, Marcella Bella e i fratelli La Bionda.
Non proprio come la Scozia, ma Kerr è in cerca di ispirazione e la trova, mettendosi a lavorare con musicisti del posto.

Se volete sapere come è andata a finire o se vi manca il sound originario dei Simple Minds, c’è una bella occasione rappresentata dal loro tour 2018, che mescola vecchie hit e l’ultimo album “Walk Between Worlds”: saranno a Cremona il 2 luglio, a Roma il 3, a Macerata il 4, a Udine il 10 e a Genova l’11.

Dont’You (Forget About Them).
I Simple Minds nel 2018
I Simple Minds nel 2018

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